Pubblicato il: 05/11/2018   

Il discorso del Sindaco Alberto Rossi alle celebrazioni del 100° anniversario del "4 novembre" (Seregno, 04/11/2018)

"Cari Concittadini, Gentili Autorità,

non nascondo una certa emozione nel pronunciare questo discorso e nel rappresentare la nostra comunità in una ricorrenza così importante. Chi mi conosce sa bene che difficilmente “leggo” nei momenti ufficiali discorsi che ho preparato prima, ma la solennità di questo contesto rende questo un momento speciale.
Celebriamo oggi il 100° anniversario del 4 novembre. Ben un secolo ci separa dal cosiddetto “bollettino della Vittoria” (qui alle mie spalle sul nostro Monumento); quando fu decretata per il nostro Paese la fine del primo conflitto mondiale e il compimento del ciclo delle campagne risorgimentali. Non siamo però qui a celebrare vittorie, ma persone, che vogliamo oggi commemorare.

La Grande Guerra sancì un cambiamento epocale per il mondo intero: nulla fu come prima (non a caso è la “prima” di una nuova epoca) e tutto cominciò ad apparire sotto una luce diversa. E non possiamo dimenticare che gli esiti sociali e politici di questo conflitto riconducono con un filo rosso assai robusto allo scoppio della seconda guerra mondiale, con tutte le problematiche sociali e politiche che hanno attraversato diversi Paesi negli anni ’20 che devono rappresentare un monito da non dimenticare mai, a maggior ragione oggi.
Su ciò che realmente diede fuoco alle polveri, al di là del casus belli scatenante, ancora oggi gli storici si interrogano. Come molti altri conflitti, la scintilla dello scoppio nasconde qualcosa di ben più rilevante, non basta di per sé a giustificare nulla. Ma si è partiti per motivazioni particolarmente “stupide”, di non enorme significato, che hanno innescato una spirale da cui nessuno è riuscito a tornare indietro. Difficile non citare Papa Benedetto XV, che la definì all’epoca una “inutile strage”, che lasciò sul campo - per tutti, vincitori e vinti - lunghe scie di sangue, di distruzione morale e materiale, che il tempo non avrebbe fatto trascolorare ma che anzi avrebbero gettato le premesse, da lì a due decenni, per un nuovo, esacerbante conflitto.
I numeri della Grande Guerra fanno ancora impressione, a distanza di 100 anni: 64 milioni i soldati coinvolti, 9 milioni i caduti, 21 milioni i feriti di cui 8 con mutilazioni permanenti, 8 milioni di civili morti in tutta Europa. Per l’Italia, dopo l’ondata di entusiasmo per la vittoria, iniziò la conta dei danni che certamente non si limitavano solo alle vittime da piangere. Il bilancio fu tragico: circa 650 mila morti, 450 mila mutilati e tre milioni di reduci a cui l’esperienza della trincea aveva lasciato cicatrici psicologiche indelebili. Il Paese era allo stremo per le spese belliche sostenute e l’economia tardava a rimettersi sulla carreggiata di un percorso di pace.
Pure una città come Seregno, allora di circa 15.000 abitanti, pagò un tributo altissimo in termini di vittime: numeri alla mano, possiamo dire che non vi fu famiglia che allora non pianse un marito, un padre, un fratello o un figlio caduto o disperso in guerra. Abbiamo letto ieri, in una bellissima cerimonia, sobria ma molto toccante, organizzata da Seregn de la Memoria, che ringrazio nuovamente, i nomi dei 219 seregnesi caduti.
Il disincanto, anche per noi italiani, offuscò presto l’euforia di un Paese che, sebbene formalmente presente nei Trattati nell’elenco dei vincitori, uscì duramente provato dall’efferatezza dei combattenti, dalle macerie rimaste sul campo e dalla disillusione e dall’amarezza rispetto alle aspettative patriottiche delle prime ore. Basterebbe anche solo leggere (come abbiamo fatto nella cerimonia di ieri) le lettere di quei soldati, contadini e operai, e delle loro mogli, scritte nella lingua semplice di gente semplice, per farsi un’idea realistica di quella guerra, oltre ogni retorica aggiunta successivamente.

Sappiamo come ogni evento della storia venga narrato ai posteri attraverso il filtro e la sovrastruttura socio-culturale dei sopravvissuti e dei loro successori, indugiando spesso in una lettura a posteriori degli avvenimenti che “piega” alla ragion di Stato azioni o scelte all’inizio magari non chiare, non consciamente orientate a quelli che poi risultarono gli epiloghi delle vicende.
Il centenario della prima guerra mondiale deve andare ben oltre una retorica o un nazionalismo che, se fini a se stessi, rischiano di essere vuoti, quando non addirittura fuorvianti, in certe degenerazioni o strumentalizzazioni.
Dopo un secolo si continua a celebrare tale anniversario e lo si fa, legittimamente, con profondo senso del dovere e di riconoscenza. È importante, infatti, tenere viva la memoria del 4 novembre e soprattutto tenere alta la bandiera tricolore del nostro Paese rendendo omaggio a quanti si sacrificarono per garantirci un futuro di libertà e di democrazia. È, prima di tutto, un appuntamento che deve unire, e non essere elemento di divisioni, appartenenze, preferenze, al di là di qualsiasi colore politico. È oggi, va ricordato prima di qualsiasi altra cosa, la “giornata dell’unità nazionale” .
Dobbiamo dunque, lo ripeto, guidare i nostri pensieri e le nostre riflessioni fuor di retorica, lontano dal tentativo – e dalla tentazione – di ridurre ai minimi termini questo appuntamento istituzionale: ossia all’autocelebrazione storica. Non vi è e mai potrà esservi l’intento di dissacrare la Storia; sono anzi il primo, come Sindaco, come cittadino e come padre, a esortare tutti, a partire dai più giovani, a portare rispetto alle nostre Forze Armate e a tutte le Forze dell’Ordine, da ringraziare tutte per il loro enorme lavoro, spesso all’ombra dei riflettori mediatici e nel silenzio di missioni delicate e riservate, da sempre sono impegnate sul nostro territorio o all’estero in aree di conflitto, per difendere vite, diritti, libertà e pace. Anche oggi si combatte e ci sono vittime, e non tanto all’estero (fanno più clamore, ma per fortuna sono poche), ma qui in patria. A titolo esemplificativo, solo nel 2018 i Carabinieri hanno avuto ad oggi circa 1000 feriti e 8 morti. Il 4 novembre deve quindi poter costituire un momento solenne di riconoscimento ai tanti militari e agenti che, in passato come oggi, interpretano il proprio ruolo con encomiabile spirito di sacrificio, di abnegazione e di rispetto per ciò che esso ha significato nella storia del nostro Paese e deve ancora essere.
Ripercorrere luoghi e tempi storici della guerra, dove la gente si sparava, e moriva, che si ripercorrono coi nostri vessilli, è esercizio storico e di memoria. Come da decenni, da Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, dal Vietnam con i bambini nudi e la devastazione, mostriamo la guerra, qui da noi non possiamo tenere gli occhi ben serrati. L’importante è sottolineare sempre gli intenti di unità e di riconoscimento di un sacrificio comune, che oggi dovrebbe essere inteso come elemento di unione. Invito dunque a mettere da parte la polarizzazione per eventi di questa natura, che ci devono portare a riflettere sulla storia e a “fare pace” con la storia.

Accanto alla commemorazione e al senso di gratitudine, deve però accompagnarci un sentimento di riscatto e di orgoglio affinché i drammi e gli errori del passato non abbiano più a mietere vittime o a fomentare l’odio tra le nazioni.
La Grande Guerra fu certamente sospinta, per taluni Paesi, da sentimenti di sincero amor patrio; la caduta dei “giganti”, ossia dei grandi imperi che non potevano più coesistere con le aspirazioni liberali e autonomiste dei popoli, fu un inevitabile evoluzione storica all’inizio di un secolo dove molti erano già i fermenti socio-culturali che spingevano verso un mondo nuovo, verso nuove rivendicazioni giuridiche, economiche e di equilibrio politico.
Ciò che oggi non dobbiamo e non possiamo però più tollerare, a meno della distruzione della nostra civiltà anzitutto in termini di valori, è la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti e delle controversie. Le due guerre mondiali del Novecento, dove la seconda fu di fatto figlia della prima essendo divampati i fuochi della rivalsa proprio sulle ceneri fumanti del 15’-18’, ci devono oggi indicare la via maestra del dialogo in qualunque contesto politico, economico o sociale vada applicato.
Il più grande risultato avuto da quel periodo tragico è, di fatto, il più lungo periodo di pace di sempre in Europa occidentale. La mia generazione non ha mai conosciuto la guerra, così come quella dei miei genitori, nati nel ’46 e nel ‘49: due generazioni di fila, evento storico nel nostro continente. Ma un importante leader europeo disse 7 anni fa in un meeting: “nessuno può dare per scontati altri 50 anni di pace in Europa”. È vero, ha ragione. Questo vuol dire essere chiamati a coltivare sempre questo tema e a voler bene alla nostra Europa, direi quasi al concetto stesso di Europa. Si può avere idee politiche differenti su questa Unione Europea, è più che legittimo, forse doveroso, ma non possiamo metterci a discutere sul valore di una Europa unita e di popoli uniti, perché questo vuol dire, in maniera più forte di quanto uno pensi superficialmente, mettere in discussione anche una assenza di conflitto nei prossimi decenni. Trascorso un secolo dunque da quei tragici eventi, non possiamo presumere di essere totalmente immuni dal pericolo di ricadere, un domani, nel baratro di una guerra.  La pace non è un dono acquisito per sempre dall’alto, va coltivata ogni giorno.
È dunque dovere morale, etico e culturale dall’alto e dal basso, delle Istituzioni ma anche dei cittadini, come singoli o in forme associative, aprirsi al confronto pacifico e costruttivo e porsi in una condizione di ascolto, di comprensione, di ragionevole compromesso. Un compromesso da intendersi non come decisione al ribasso, ma come sintesi efficace di più contributi e apporti dove la pluralità di pensieri e opinioni non diventi motivo di ostacolo bensì leva per il cambiamento e per il miglioramento. Dice in un suo libro (“Contro il fanatismo”) Amos Oz, scrittore israeliano a me caro: “Sono sposato da 42 anni, rivendico un briciolo di competenza in fatto di compromessi. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte).

Tre saluti e ringraziamenti finali. Il primo alle Autorità militari e alle Forze dell’ordine qui presenti, alle Associazioni Combattentistiche e d’Armi di Seregno: a loro esprimo un sentito e umilissimo “grazie” per il loro servizio e per quanto hanno saputo dimostrare. La Città vi è grata e debitrice, in primis le Istituzioni che mi onoro temporaneamente di rappresentare.
Il secondo ai più giovani che oggi si sono voluti unire a queste celebrazioni. L’età media di solito in questi contesti è piuttosto alta: è stato bello iniziare le celebrazioni questa mattina con dei bambini che portavano la prima corona, a San Carlo. Mai deve mancare in noi l’impegno di tramandare sempre (non solo con l’occasione di un anniversario che è “cifra tonda”) alle generazioni i valori e gli insegnamenti che provengono da queste ricorrenze. Ai più giovani dunque  dico: perché siamo qui? Cosa ci dice, cosa ci insegna questa ricorrenza? Ci dice di essere ambasciatori di pace, di giustizia, di legalità. E allora l’invito, per i giovani ma per tutti noi, è di essere cittadini innamorati del nostro Paese, per custodirne le gesta e gli esempi più valorosi ed edificanti. Siate testimoni di un mondo che vuole sostituire le disuguaglianze e la povertà con il lavoro, la mortificazione con l’intraprendenza, l’intolleranza con la solidarietà, gli illeciti e i reati con il rispetto delle leggi e del prossimo, la paura con il coraggio, la rabbia con il dialogo. Siate fiduciosi e ambiziosi, credendo e adoperandovi fortemente per un futuro migliore. Siate sempre rivolti con lo sguardo “oltre e più in alto”, senza temere di poter sperare che le cose buone e giuste accadano. Siate uniti nei valori e liberi di avere ognuno i propri convincimenti e le proprie opinioni.
Ringrazio infine tutti voi concittadini per essere qui, perché la vostra presenza testimonia come siano ancora sentite e partecipate le ricorrenze istituzionali, persino dopo 100 anni, persino dopo un secolo dove tutto è cambiato e quegli avvenimenti possono sembrare troppo lontani dalla nostra realtà quotidiana. Grazie, e viva l’Italia".

Alberto Rossi - Sindaco

 

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